Carissimi amici,
com’è tradizione, in questo giorno santissimo in cui ricordiamo l’istituzione
dell’Eucaristia e la nascita del nostro Sacerdozio ministeriale, desidero
rivolgervi un pensiero con animo grato. La gratitudine nasce dalla grazia
ricevuta col Sacramento dell’Ordine, dono del Signore totalmente immeritato. A
ciascuno di voi esprimo poi il mio sentito grazie per la carità pastorale che
dedicate quotidianamente al popolo di Dio affidato alle vostre cure. Il lavoro
tenace e senza risparmio che svolgete, nonostante una cultura diffusamente
secolarizzata, concorre non poco a far penetrare le istanze del Vangelo nelle
coscienze degli uomini.
Mi commuovono le
meraviglie che il Signore continua ad operare instancabilmente nella nostra
vita, nonostante la nostra indegnità. Questo sentimento è dettato dal fatto che
oggi percepisco in modo specialissimo la vicinanza di questo Presbiterio, la
vostra amicizia: tutti voi siete fraternamente associati a me nel rinnovare con
gioia e senso di responsabilità le promesse solennemente pronunciate nel giorno
della Consacrazione sacerdotale.
In questa particolare circostanza condivido con voi alcuni
pensieri. Oggi tutti noi sediamo idealmente a quella mensa nel Cenacolo,
attorno a Gesù, per accogliere l’Amore eucaristico che si dona a ciascuno di
noi «sino alla fine» (Gv 13,1), un Amore sconfinato e incondizionato, che
raggiunge il nostro cuore per avvolgerlo, riscaldarlo, elevarlo, consacrarlo.
Proprio quell’Amore ci ha spinto a destinare la vita al servizio di Cristo e
della Sua Chiesa e, attraverso la comunità ecclesiale, al servizio di ogni
uomo. A quella tavola il Signore ci sussurra ancora una volta «Fate questo in
memoria di me», ci affida nuovamente «con affetto e predilezione» (cfr. Prefazio
della Messa Crismale) una missione tanto delicata quanto esigente: partecipare
al suo sacerdozio, dispensare i doni di grazia che da Lui promanano. È davvero
stupenda questa vocazione che ci rende ministri e testimoni di un mistero così
grande!
Desidero qui soffermarmi su un aspetto importante della nostra
vocazione: il nostro ‘essere’ sacerdotale. Come ho già scritto nella lettera di
presentazione degli Orientamenti Pastorali di quest'anno, il sacerdozio
ricevuto si fonda su un’umanità che attinge direttamente dal cuore di Cristo i
propri sentimenti. Ciascuno di noi, scelto fra gli uomini e per essi costituito
(cfr. Eb 5,1), è consapevole di esser chiamato a credere profondamente e a
professare coraggiosamente la fede, a pregare con fervore e a insegnare con
convinzione, a servire con abnegazione e attuare nella propria vita lo spirito
delle Beatitudini, ad amare in modo disinteressato e accompagnare
spiritualmente ciascuno con prossimità, semplicità e capacità di dialogo. A
imitazione di Gesù, il nostro sacerdozio richiede allora di far nostre queste
qualità.
È molto suggestiva l’immagine che papa Francesco spesso offre della
Chiesa come ospedale da campo. Mi sorge spontanea una domanda: dove sono i
preti in questo scenario? Sono lì, nelle trincee della vita, di ogni vita,
pronti a farsi carico di un’umanità sofferente, a soccorrere le ferite aperte
di quanti sono caduti nelle illusioni del mondo o sono inciampati nelle
disgrazie materiali. Sì, noi preti siamo lì, accanto a coloro che sono vessati
dalla disparità sociale, dall’ingiustizia e dall’emarginazione. Noi siamo al
fianco di coloro che piangono per asciugarne le lacrime, siamo vicini agli
umiliati e ai calpestati per ascoltarne il grido rimasto silente! Noi siamo lì
pronti a medicare anche le ferite nascoste, quelle interiori – come la
vergogna, la solitudine, il disprezzo – che forse lacerano il cuore umano
più di quanto non facciano quelle esteriori.
Credo proprio che la fisionomia spirituale del prete debba essere
connotata da questa evangelica compassione. Mi tornano alla mente le parole del
nostro Patrono Matteo, quando scrive che Gesù «vedendo le folle, ne sentì
compassione perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore»
(9,36). Oggi sono tante le persone che, stanche e sfinite, aspettano nel
bisogno di essere raggiunte da noi, dallo sguardo misericordioso di Cristo che
rendiamo presente nel nostro ministero. Esse, respinte e schiacciate da quella
che papa Francesco chiama cultura dello scarto, attendono qualcuno disposto ad
abbracciare la loro esistenza, a raccoglierne gli affanni, ad ascoltare i
drammi che attanagliano la loro vita e soffocano progressivamente la loro
speranza. Queste persone hanno fame e sete di sperimentare e di toccare l’Amore
di Dio. E noi non possiamo rimanere indifferenti!
We care, avrebbe detto don Milani. A noi interessa la vita dei fedeli,
ciascuno di essi ci sta a cuore! Il Santo Padre sogna «ministri capaci di
riscaldare il cuore alla gente, di camminare nella notte con loro, di dialogare
con le loro illusioni e delusioni, di ricomporre le loro disintegrazioni».
Anche io chiedo a ciascuno di voi di accostarsi con rispetto e di riconoscere
onestamente le ferite che sono presenti nei cuori di quanti vi circondano,
delle famiglie, dei confratelli, dei parrocchiani. So quanto sia faticoso
riconoscerle e, ancor più, provare a curarle con delicata tenerezza. Ogni
autogiustificazione che ci fa sentire esenti dal dovere di intervenire, oltre
ad essere un’omissione d’amore nei confronti di un bisognoso, è in realtà
epifania di un cuore indurito e chiuso. Vi esorto dunque, cari amici, a
riscoprire con gioia e fiducia la virtù della prossimità. Viviamola
innanzitutto tra noi preti, come un'esigenza profonda e una grazia sempre
nuovamente da chiedere al Signore, per ridare vigore e slancio al nostro
cammino verso la santità e al nostro stesso ministero.
La virtù della prossimità si accompagni poi a quella della semplicità.
Alcune persone anziane mi raccontano di amare tanto papa Francesco perché –
dicono – «è una persona semplice come noi». È per noi molto edificante la fede
di tanti nostri parrocchiani, gente semplice che porta avanti una vita
cristiana non raramente più santa della nostra. Talvolta, sedotti dal prestigio
della carica corriamo il rischio di porre distanze e barriere tra noi e quanti
sono affidati alle nostre cure pastorali. Spesso rischiamo di essere complessi
ed enigmatici nel modo di parlare, nel modo di comportarci,
nell’autoreferenzialità, nell’egocentrismo. Tutto questo si riflette
negativamente nella nostra azione pastorale, tinteggiata di individualismo o
esclusivismo. La Chiesa da sempre, ma soprattutto oggi, ha bisogno di preti
che, oltre ad essere vicini alla gente, sappiano amare l’essenzialità e
conducano una vita semplice.
La semplicità si concretizza nel porgere la giusta attenzione alla
singola persona, alla sua storia, al suo vissuto, al suo contesto di
riferimento, alle sue aspirazioni. Se la nostra pastorale non privilegia
quest’attenzione diventerà poco a poco sterile. L’efficacia del ministero
sacerdotale si poggia sulla capacità di intessere una relazione autentica
finalizzata alla salvezza dell’altro. Qualsiasi programmazione o organizzazione
di carattere pastorale è finalizzata all’impegno prioritario di curare la
relazione personale. E, benché i mezzi della comunicazione favoriscano
quest’opera, non dimentichiamo che essi non potranno mai sostituire l’intensità
e la capacità comunicativa dell'incontro interpersonale concreto.
La premura pastorale, per evitare che ognuno prenda scorciatoie
esistenziali, richiede un accompagnamento paziente e costante. Molti sono
spaventati dalla ‘misura alta’ della santità, si scoraggiano o si ritirano,
forse considerandosi indegni. La vostra cura pastorale sia un cammino
condiviso capace di mettersi al passo col ritmo altrui, un dialogo franco
e rispettoso verso tutti, soprattutto nei confronti di chi non la pensa come
noi. Un dialogo è onesto e autentico non quando ci si limita a ‘sentire’, ma
a percepire la pienezza di ciò che il cuore dell’altro desidera
trasmettere. C’è quindi bisogno di uno spirito contemplativo capace non solo di
apertura verso l’altro, ma di vera accoglienza. C’è bisogno di tempo per
ascoltare! C’è bisogno di pazienza con le persone! L’efficienza frenetica è
nociva alla pastorale.
Carissimi amici, sono consapevole che l’insidia della stanchezza possa
infiacchire la responsabilità pastorale. La superficialità e il relativismo
possono contaminare anche il Sacramento dell’Ordine. Con queste indicazioni, ho
voluto allora voluto semplicemente suggerirvi dei tratti essenziali che hanno
caratterizzato il ministero di Gesù e che possono ravvivare il nostro.
Cosa possiamo augurarci oggi? Di vivere con un cuore che ricerca la
santità di vita, la comunione profonda. Sono certo che la nostra testimonianza
luminosa di vita evangelica, che si rende eloquente nella carità (cfr. Gal
5,6), porterà grazie e benedizioni alla nostra comunità ecclesiale.
Vorrei un regalo da voi, e lo vorrei oggi. Che ci aiutassimo a
consolidare i legami che ci uniscono all’interno del Presbiterio. Chiedo al
Signore che ci doni la sapienza per ricomporre ciò che è fratturato,
ricompattare ciò che è stato diviso, ricucire ciò che è stato lacerato.
Proviamo, ciascuno con il proprio impegno, a far scomparire quei muri di
separazione tanto alti quanto la distanza che ci tiene lontani l’uno
dall’altro. Siamo ministri di riconciliazione non solo per il popolo, ma anche
nella reciprocità dei nostri rapporti. Spero davvero che vi impegnerete a
lavorare perché ciò accada.
Mentre affido alle vostre preghiere la mia persona e il ministero
episcopale che svolgo al vostro servizio, voglio assicurarvi che anche io
prego quotidianamente per ciascuno di voi e per i fedeli che sono affidati alle
vostre cure. Nell’invocare su ciascuno di voi l’intercessione di Maria, madre
del Sacerdozio, di cuore abbraccio tutti e ciascuno e vi benedico.
+ Luigi Moretti
Giovedì Santo 2015
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