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Usare Facebook durante il lavoro è motivo di legittimo licenziamemto: provvedimento del Tribunale di Milano.



"Il lavoro nobilita l'uomo" recita un vecchio adagio ma c'è anche chi ha scritto che "non serve a niente essere vivi, se bisogna lavorare". Insomma non per tutti il lavoro è un piacere anche se oggi giorno non se ne può proprio fare a meno.
Quando il lavoro diventa noioso c'è anche chi cerca di distrarsi con qualcosa di più divertente.
Ne sanno qualcosa i datori di lavoro che con l'avvento dei social network sono entrati in allarme perché si sono resi conto che spesso i propri dipendenti non sanno resistere dal collegarsi a Facebook durante l'orario lavorativo.
Un peccato veniale? Forse si, ma in certi casi potrebbe comportare il rischio di un  licenziamento
Ne sa qualcosa il dipendente di un'azienda che proprio durante le ore del lavoro aveva scattato un paio di foto ai colleghi per pubblicarle su Facebook. Le foto erano state accompagnate anche da alcuni commenti poco felici nei confronti del datore di lavoro.
Ed è stato forse proprio quel commento a far scattare le reazioni dell'azienda che aveva anche scoperto che il dipendente era solito anche accedere a siti porno durante le ore di lavoro.
Conseguenza di tutto ciò è stato il licenziamento per violazione dei doveri di diligenza, correttezza e buona fede nell'esecuzione della prestazione lavorativa.
 Logico corollario di ciò è stata non solo una lesione all'immagine dell'azienda ma soprattutto l'interruzione del rapporto di fiducia tra dipendente e datore di lavoro.
Durante il contenzioso il dipendente ha tentato di difendersi affermando che terze persone si sarebbero impossessate delle sue credenziali dell'account Facebook e avrebbero poi commentato in maniera offensiva il datore di lavoro; sull'accesso ai siti porno ha invece sostenuto che non solo lui ma anche altri dipendenti avevano accesso al suo computer.
Una linea difensiva che non ha fatto breccia nei giudici del Tribunale di Milano che con il provvedimento n. 6847 del 1 agosto 2014, ha rigettato il ricorso del dipendente dando ragione all'azienda, considerando legittimo il licenziamento per un comportamento che aveva screditato l'immagine dell' azienda creando un frattura irreversibile circa il rapporto fiduciario.

Matrimonio nullo se lui è un bamboccione: Corte di Cassazione civile, sezione prima, con sentenza n. 19691 del 18 Settembre 2014.



Piuttosto spesso la Corte di Cassazione ha avuto modo di occuparsi dei figli bamboccioni. 
A quanto pare però ci sono anche quelli che pur avendo deciso di convolare a nozze non riescono proprio fare a meno della propria mamma.
E in un caso affrontato dai giudici di piazza Cavour questo legame simbiotico con la madre ha comportato la nullità del matrimonio.
La Corte d'appello si era occupata di una richiesta di delibazione di una sentenza ecclesiastica che aveva considerato rilevante l'accertamento di una patologia a carico di uno dei coniugi (il legame morboso con la madre) ed aveva dichiarato la nullità del matrimonio concordatario. 
Secondo i giudici ecclesiastici il marito aveva sviluppato una dipendenza dalla figura materna tale da impedirgli di adempiere a seppur minime manifestazioni di affetto verso la moglie – necessarie a preservare l'equilibrio psicofisico della coppia.
Ciò integrerebbe un vera e propria patologia (di cui il soggetto stesso, sino alle prime manifestazioni, ignorava l'esistenza). Legittima dunque la richiesta di dichiarare la nullità del matrimonio.
Nella parte motiva della sentenza (il cui testo integrale può essere scaricato qui sotto), la Corte di Cassazione in ogni caso precisa che il giudice italiano (nella specie, la Corte d'appello territorialmente competente) nel decidere sulla delibazione non può sindacare nel merito le valutazioni operate dal tribunale ecclesiastico.
Altra particolarità del caso è che la nullità del matrimonio non era stata chiesta dalla ex consorte ma dallo stesso marito "mammone".
In merito la Corte di Cassazione chiarisce che non c'è nell'ordinamento nazionale "un principio di ordine pubblico secondo il quale il vizio che inficia il matrimonio possa essere fatto valere solo dal coniuge il cui consenso sia viziato" e quindi sia lui che lei possono chiedere che sia dichiarata la nullità.

Commette reato di molestie (660 c.p.) chi fa commenti 'poco educati' sulle bacheche delle ragazze. Lo stabilisce la Cassazione che ritiene Facebook un 'luogo aperto al pubblico'.


"Con quella bocca può dire ciò che vuole" recitava la giovane Virna Lisi nel Carosello del 1958 che pubblicizzava il dentifricio Chlorodont. Ma se a Virna Lisi veniva concessa questa licenza ciò non significa che il solo fatto di avere una bocca ci autorizzi a dire di tutto.
Le parole che offendono, in modo più o meno esplicito,  non possono essere mai giustificate quindi non ci si può difendere dicendo :"e' colpa sua se va in giro così..." .
Bisogna dunque fare attenzione ai commenti che si fanno sulle bacheche altrui di Facebook ,perché anche esprimere un parere negativo sull'abbigliamento di una ragazza, ad esempio dicendole: ma come ti vesti? Vai in giro vestita così ? potrebbe costare una condanna per il reato di molestie di cui all'articolo 660 del codice penale.
Ve precisato che nei casi più gravi di turpiloquio , offese esplicite o velate possono configurarsi altre ipotesi di reato come l'ingiuria( se l'insulto viene fatto solo in presenza della persona offesa, ad esempio in una conversazione in chat) si ha invece diffamazione se l'offesa alla persona viene fatta davanti a più persone ad esempio proprio su una bacheca Facebook o in altri contesti pubblici.
È vero, viviamo in una società in cui il pettegolezzo sembra dilagare molto di più che in passato, forse proprio per la complicità dei social network che se da un lato hanno avuto il merito di far conoscere o far ritrovare persone lontanissime, dall'altro sono diventati una immensa vetrina attraverso la quale tutti possono accedere alla vita privata degli altri.
Il caso di cui si è occupato la Cassazione (sentenza  n. 37596 del 12 settembre 2014) riguarda proprio un commento apparso sulla bacheca di Facebook di una ragazza.
La donna aveva postato una sua foto che la ritraeva con una evidente scollatura e ciò aveva dato adito a un pesante commento da parte di un uomo che oltretutto si era nascosto dietro l'anonimato di un nickname.
Con questa pronuncia la Prima sezione penale della corte di cassazione ha ricordato che Facebook deve essere considerato "luogo aperto al pubblico" proprio perché l'accesso è consentito a chiunque utilizzi la rete. Ne discende che, in casi del genere, può configurarsi il reato previsto e punito dall'articolo 660 del codice penale.
Insomma, spiega la Corte,  Facebook è una vera e propria "piazza virtuale" che consente "un numero indeterminato di accessi e visioni, rese possibili da una evoluzione scientifica che il Legislatore non era arrivato ad immaginare".
A questo punto siamo tutti avvertiti.